“Non credo ai miei occhi”
Non so chi ancora legge queste presentazioni, ma ultimamente, credo di avervi rintracciato alcune costanti significative.
I critici “parlano male” dello stato dell′arte contemporanea, e “parlano bene” dell’artista presentato, come se egli debba essere il rappresentante della reazione al “clima del tempo”: l′eccezione che conferma la regola. E c’è il desiderio di scindere la produzione di immagini della moda e dei mass-media, dalla “vera” produzione artistica, senza però chiarire quali siano i criteri di distinzione.
Anche molti artisti scrivono, oscillando tra imperscrutabili dichiarazioni filosofiche e solipsismi intimistici, risultando commoventi per l’innocenza giovanile dell’entusiasmo sincero e del timido atteggiamento difensivo. Forse proprio per ciò i risultati sono solo genericamente rapportabili alle opere, quando non contrastano con esse. Eppure sono forse i soli ad essere sinceri; e onesti, compromettendosi molto più dei “professionisti” della parola.
L’impressione generale è che l’immagine non sia ritenuta sufficiente, e necessiti comunque, delle stampelle del testo.
Io, invece, credo che le opere d’arte siano già più che sufficientemente eloquenti, e più “elastiche” delle parole, troppo legate alle contingenze di tempo e di luogo. Perciò credo ai miei occhi.
Sì, ciò che vedo mi piace e mi convince, e lascio agli altri il discutibile piacere di chiedersi perché e percome.
I critici “parlano male” dello stato dell′arte contemporanea, e “parlano bene” dell’artista presentato, come se egli debba essere il rappresentante della reazione al “clima del tempo”: l′eccezione che conferma la regola. E c’è il desiderio di scindere la produzione di immagini della moda e dei mass-media, dalla “vera” produzione artistica, senza però chiarire quali siano i criteri di distinzione.
Anche molti artisti scrivono, oscillando tra imperscrutabili dichiarazioni filosofiche e solipsismi intimistici, risultando commoventi per l’innocenza giovanile dell’entusiasmo sincero e del timido atteggiamento difensivo. Forse proprio per ciò i risultati sono solo genericamente rapportabili alle opere, quando non contrastano con esse. Eppure sono forse i soli ad essere sinceri; e onesti, compromettendosi molto più dei “professionisti” della parola.
L’impressione generale è che l’immagine non sia ritenuta sufficiente, e necessiti comunque, delle stampelle del testo.
Io, invece, credo che le opere d’arte siano già più che sufficientemente eloquenti, e più “elastiche” delle parole, troppo legate alle contingenze di tempo e di luogo. Perciò credo ai miei occhi.
Sì, ciò che vedo mi piace e mi convince, e lascio agli altri il discutibile piacere di chiedersi perché e percome.
Silvano Gilardi, introduzione alla mostra Charte,
galleria Davico, Torino 1999.
Tuttavia, ...
Inchiostri, pastelli e colori ad acqua; uomini donne e animali: reali fantastici e a metà tra i due stati; paesaggi ritratti e nature morte; visioni di natura trasfigurate nell’astratto, memorie storiche intatte nella forma originale vivificate dalla linfa del presente, ed eventi futuri di un passato senza riscontro con il presente.
La denominazione iconografica dei soggetti - meschino retaggio classificatorio - potrebbe indurre distrazione nella sua pluralità. Invece è indubbio il legame che unisce le immagini nello spazio e nel tempo: è l’intenzione, ovviamente, manifestata nella scelta della tecnica rappresentativa.
Questa è priva di quei tentennamenti stilistici che troppo spesso sono le “foglie di fico” dell'incapacità di mestiere, mal giustificati da una presunta nebulosità e inafferrabilità del soggetto (che è tale solo nel suo significato, non nella sua forma visibile); senza le gelide pedanterie descrittive da disegnatore tecnico incapace di ricongiungere il particolare con l’universale; senza la violenta sicumera celante il terrore della verità dei sentimenti, senza le remore ideologiche indicanti miopia, quando non basso interesse personale, senza quel malcelato, ipocrita rispetto dei “movimenti” storici e moderni, pur sempre invocati dalla critica impotente di fronte all’anarchica libertà dell’artista.
E’ dunque la vilipesa “buona tecnica”, docile e generoso specchio della vasta profondità della conoscenza, altrimenti muta.
La denominazione iconografica dei soggetti - meschino retaggio classificatorio - potrebbe indurre distrazione nella sua pluralità. Invece è indubbio il legame che unisce le immagini nello spazio e nel tempo: è l’intenzione, ovviamente, manifestata nella scelta della tecnica rappresentativa.
Questa è priva di quei tentennamenti stilistici che troppo spesso sono le “foglie di fico” dell'incapacità di mestiere, mal giustificati da una presunta nebulosità e inafferrabilità del soggetto (che è tale solo nel suo significato, non nella sua forma visibile); senza le gelide pedanterie descrittive da disegnatore tecnico incapace di ricongiungere il particolare con l’universale; senza la violenta sicumera celante il terrore della verità dei sentimenti, senza le remore ideologiche indicanti miopia, quando non basso interesse personale, senza quel malcelato, ipocrita rispetto dei “movimenti” storici e moderni, pur sempre invocati dalla critica impotente di fronte all’anarchica libertà dell’artista.
E’ dunque la vilipesa “buona tecnica”, docile e generoso specchio della vasta profondità della conoscenza, altrimenti muta.
A.G. Æ. S. 37
Biografia "storico-critica"
Silvano Gilardi nasce il 23 ottobre 1933 a Torino dove il padre Mario si è trasferito dalla originaria Svizzera italiana per frequentare l’Accademia Albertina e proseguire la lunghissima tradizione famigliare di pittore e restauratore. Come i fratelli (Italo, Sandro e il più giovane e noto Piero) è indotto fin dall’infanzia a fare, del disegno prima e della pittura poi, un’abitudine quotidiana sempre suscettibile di miglioramenti tecnici e inventivi. A 26 anni decide di operare in proprio come restauratore, sia in Piemonte che in Ticino, ma ben presto sente la necessità, quasi l’inevitabilità, di dedicarsi decisamente alla pittura. Quindi inizia l’attività espositiva di grafica e pittura nella quale ben presto riscuote premi e successi: nel 1953 vince il prestigioso II° premio alla mostra del “Bianco e Nero” di Torino, seguito dal I° a “Torino – Esposizioni” nel ‘56 e di nuovo il I° al “Bianco e Nero” del ‘61. Sovente invitato a premi, concorsi, collettive, fiere e manifestazioni (quasi un centinaio nei soli anni Sessanta) ha modo di farsi ulteriormente conoscere ed apprezzare, sia in Italia che negli altri paesi europei, soprattutto in Olanda e in Germania, poi in Francia e Inghilterra, mentre negli anni ‘70 e ‘80 anche in Canada. Nei primi anni ‘60 partecipa con un gruppo di amici alla fondazione del gruppo SURFANTA, che ha rappresentato la partecipazione attiva di certa pittura italiana al grande movimento analogo del Neo-surrealismo allora presente in tutta Europa. Significativa di questa posizione è la partecipazione del gruppo ad una mostra itinerante in diverse città della Cecoslovacchia negli anni immediatamente precedenti la Primavera di Praga. Silvano Gilardi - che assume lo pseudonimo di ABACUC - si distingue per due componenti della sua pittura che rimangono sempre costanti anche nelle seguenti evoluzioni stilistiche: in primo luogo la “sapienza” tecnica – oltre alla “capacità” – che non solo permette di offrire opere di notevole qualità (fatto rimarcato, a volte con stupore, da tutti i suoi critici e biografi), ma soprattutto rende visibile in una forma adeguata il “messaggio” contenuto nell’opera (cioè la vera qualità tecnica come strumento da usare con disinvoltura, e non mezzo per fare del vuoto virtuosismo). In secondo luogo già in questa prima fase è evidente l’intenzione di evidenziare quella solenne sacralità, la grandezza e la limpida chiarezza che sono proprie della Natura e delle sue manifestazioni. Queste opere “fantastiche” e “surrealiste” - ancora oggi apprezzate e richieste per la loro ricchezza di soluzioni pittoriche di stuzzicante ironia e di fantasia inventiva – adombrano il rapporto fondamentale di Gilardi con la spiritualità che si infonde nella realtà naturale, che assumerà particolare evidenza nei periodi successivi del “figurativo” e quindi dei “paesaggi”, iniziato nel 1975 con certo anticipo sulle analoghe correnti pittoriche italiane. A quest’ultima serie segue quella delle grandi “nature morte” (dal 1983): enormi mele, frutti, conchiglie e chiari panneggi pulsano nella luce cristallina e sognante di spazi non definiti; la realtà degli oggetti della Natura è più facilmente e intimamente avvicinabile dei grandi paesaggi aperti, ma altrettanto coinvolgente e ricca di “storie intime” da raccontare. Dopo pochi anni lo spazio si oscura e la luce si condensa negli oggetti non sempre più riconoscibili nella loro natura vegetale: vi aleggia un’atmosfera cupa, memore di certa pittura antica che adombrava gli oggetti di complicati significati simbolici.
Sono questi gli anni di maggior successo di pubblico e di critica, nei quali le pur meno frequenti ma selezionate esposizioni, stimolano un forte aumento della richiesta di opere. Dopo dieci anni circa di attività frenetica interviene una drammatica crisi: da una parte critici e mercanti sollecitano una produzione sempre più abbondante e al limite del seriale, necessaria per ottenere quel successo popolare al quale ambiscono, dall’altra l’artista si sente sfruttato e si rende conto che aderendo a queste richieste dovrebbe per forza limitare la qualità delle singole opere, come inevitabilmente accade in tali circostanze.
In questo periodo diversi fatti coincidono a determinare alcune scelte nella vita e nelle attività di Gilardi: l’abbandono di Torino e il ritorno in Ticino, l’intensificazione e la specializzazione nel campo dei restauro, lo studio attento e particolareggiato della pittura antica specialmente seicentesca - dapprima attraverso alcune “copie” apparentemente fedelissime, ma in effetti intelligentemente interpretate, poi con personali “invenzioni” eseguite con tecnica magistrale e con forte, meditata concentrazione. Queste opere non sono ancora state oggetto di un’esposizione organizzata, infatti oggi, pur continuando saltuariamente l’attività espositiva e mantenendo i contatti con il mondo dell’arte, la produzione di Gilardi è indirizzata ai raggiungimento poetico e formale di un tale intimo equilibrio da escludere quasi la finalità della vendita agire in una concentrazione e serenità di ricerca non facilmente raggiungibili altrimenti.
Le eccezioni verificatesi sono dovute ad operazioni particolari, quali l’esposizione effettuata in coincidenza con l’inaugurazione dei restauri all’antico Castel Grande di Bellinzona (1992) nella quale sono state presentate diverse opere tra disegni, acquerelli e dipinti sull’unico tema dell’ubicazione geografica e antropica della “chiusa” fortificata: un esempio di fruttuosa collaborazione tra uno storico e archeologo “committente” (il prof. Pierangelo Donati) e un artista che aveva già accettato con entusiasmo gli stimoli tematici e formali scaturiti dalle discussioni con amici esperti nel campo dell’arte quali Maurizio Corgnati e Flavio Caroli, ovvero cimentandosi con operazioni di rivisitazione di alcuni periodi storico artistici.
Ciò che conferisce dignità artistica e culturale a queste “non-copie” dell'arte antica è non solo l’evidente esecuzione moderna del soggetto - anche se con una tecnica raffinatissima desueta nella pittura attuale - ma soprattutto il concetto di “interpretazione” di un tema prescelto, affine all'operazione che compiono i musicisti ogni qual volta interpretano, appunto, alla luce della visione contemporanea un qualche brano del passato: con fedeltà filologica ma con spirito moderno e originalmente personale. Se dunque è concesso, anzi richiesto, ai direttori e ai solisti di rivisitare con fedeltà sì, ma soprattutto con originalità e sensibilità un brano musicale che ha ancora molto da dire ai contemporanei, perché non potrebbe essere lo stesso anche per la pittura?
Sono questi gli anni di maggior successo di pubblico e di critica, nei quali le pur meno frequenti ma selezionate esposizioni, stimolano un forte aumento della richiesta di opere. Dopo dieci anni circa di attività frenetica interviene una drammatica crisi: da una parte critici e mercanti sollecitano una produzione sempre più abbondante e al limite del seriale, necessaria per ottenere quel successo popolare al quale ambiscono, dall’altra l’artista si sente sfruttato e si rende conto che aderendo a queste richieste dovrebbe per forza limitare la qualità delle singole opere, come inevitabilmente accade in tali circostanze.
In questo periodo diversi fatti coincidono a determinare alcune scelte nella vita e nelle attività di Gilardi: l’abbandono di Torino e il ritorno in Ticino, l’intensificazione e la specializzazione nel campo dei restauro, lo studio attento e particolareggiato della pittura antica specialmente seicentesca - dapprima attraverso alcune “copie” apparentemente fedelissime, ma in effetti intelligentemente interpretate, poi con personali “invenzioni” eseguite con tecnica magistrale e con forte, meditata concentrazione. Queste opere non sono ancora state oggetto di un’esposizione organizzata, infatti oggi, pur continuando saltuariamente l’attività espositiva e mantenendo i contatti con il mondo dell’arte, la produzione di Gilardi è indirizzata ai raggiungimento poetico e formale di un tale intimo equilibrio da escludere quasi la finalità della vendita agire in una concentrazione e serenità di ricerca non facilmente raggiungibili altrimenti.
Le eccezioni verificatesi sono dovute ad operazioni particolari, quali l’esposizione effettuata in coincidenza con l’inaugurazione dei restauri all’antico Castel Grande di Bellinzona (1992) nella quale sono state presentate diverse opere tra disegni, acquerelli e dipinti sull’unico tema dell’ubicazione geografica e antropica della “chiusa” fortificata: un esempio di fruttuosa collaborazione tra uno storico e archeologo “committente” (il prof. Pierangelo Donati) e un artista che aveva già accettato con entusiasmo gli stimoli tematici e formali scaturiti dalle discussioni con amici esperti nel campo dell’arte quali Maurizio Corgnati e Flavio Caroli, ovvero cimentandosi con operazioni di rivisitazione di alcuni periodi storico artistici.
Ciò che conferisce dignità artistica e culturale a queste “non-copie” dell'arte antica è non solo l’evidente esecuzione moderna del soggetto - anche se con una tecnica raffinatissima desueta nella pittura attuale - ma soprattutto il concetto di “interpretazione” di un tema prescelto, affine all'operazione che compiono i musicisti ogni qual volta interpretano, appunto, alla luce della visione contemporanea un qualche brano del passato: con fedeltà filologica ma con spirito moderno e originalmente personale. Se dunque è concesso, anzi richiesto, ai direttori e ai solisti di rivisitare con fedeltà sì, ma soprattutto con originalità e sensibilità un brano musicale che ha ancora molto da dire ai contemporanei, perché non potrebbe essere lo stesso anche per la pittura?
Estratti critici
Figlio di un «clima» oltre-fantastico come quello torinese, la Torino del dopoguerra, barocca e geometrica, astratta e pronuba di fatiche intellettuali solitarie (qui vivono pittori-chierici che coltivano ascesi da Monte Athos), Abacuc è forse la più grossa personalità artistica della pittura fantastica italiana, certo il protagonista di statura europea che ci mancava.
Armando Capri, Abacuc a Bologna,
Galleria Portici, Bologna 1974
Ho detto più sopra che stiamo facendo un sogno, perché questo è il termine suggerito dalle opere degli ultimi tre anni di lavoro di Silvano Gilardi. Richiamano difatti per più aspetti l'idea del sogno anzi l'immagine del sogno. Sogno, intanto, per la penetrante gradevolezza delle figure pittoriche, delle tinte, delle sensazioni che esse procurano, affondate in una misteriosa prospettiva che si allunga nel senso della scena e al tempo stesso nel senso affatto contrario dello spirito dello spettatore. Sogno, anche perché la tecnica pittorica di Gilardi pur muovendo da un principio illusionistico, conduce passo passo l’immagine ad una carica allusiva che diventa via via più densa. Sogno, perché la superficie e vorrei dire lo specchio dell’opera sembra ogni volta lievitare, anzi levitare come per un sottilissimo strato d’aria, che agisce poi sullo spettatore in forma di un leggero stato psicologico e quindi sta al di sopra del vero che gli corrisponde.
Luigi Carluccio, I paesaggi di Silvano Gilardi (Abacuc),
Macla editore, Desio 1979
I dipinti di Gilardi scintillano come gioielli cosmici il cui scrigno è l’animo umano; essi derivano da una intuizione mistica della realtà che ha una rispondenza fra la vita interiore dello spirito e le forme esteriori della natura. Per Gilardi la natura è uno specchio della «mente che percepisce». Attraverso l’intensità di colore e il modo di dipingere egli spinge i limiti di realismo prosaico a una tale intensità emotiva che persino il più piccolo filo d’erba è trasformato in un simbolo di alto livello di consapevolezza…
Adele Freedman, Silvano Gilardi,
Madison Gallery, Toronto 1979
La soluzione prescelta da Gilardi non è quella “realista” ma quella “nominalista”, secondo la quale l’universale è un segno delle cose stesse e sta in luogo di esse. Quanto a dire, sul piano dell'estetica figurativa, che per Gilardi la pittura sta al posto della realtà, la sostituisce. Ecco perché il reale non ha nulla di realistico, è una invenzione che parte da un pretesto, da una nozione convenzionale della natura.
Vittorio Sgarbi, Il nominalismo di Silvano Gilardi,
catalogo della mostra, Galleria Davico, Torino 1986
Abacuc dall’atmosferico realismo magico ritorna da Davico dopo essersi lasciato alle spalle le catene alpine uscite dalla sua mente di visionario. Ora sembra preso neppur tanto da una realtà in posa tutta di frutta e fiori, quanto dalle metafore che si traducono visivamente in «nature silenti», dal momento che nulla è realmente più lontano dai modelli cui il pittore può aver guardato, di queste porcellanose superfici cromatiche che pur avendo le loro ascendenze nella produzione, ad esempio, d’un Monfort, ne oltrepassano gli esiti per raggiungere le sedi d’una iperuranica bellezza dove anche l'artificio supremo di quella luce che tutto amalgama assume un valore di verità.
Angelo Dragone, Ritornano Abacuc e i neo-futuristi,
“La Stampa”, 4 maggio 1986
Opere nei musei
Museum de Vaart, Hilversum (Olanda); Bertrand Russel Peace Found., Londra, Museo d’arte contemporanea, Berlino Wilmerdorf; Galleria d’arte moderna, Rivoli - Torino; Galleria civica d’arte moderna, Chiusi La Verna (Arezzo); Museo de arte grafica y seriado, Ibiza (Spagna); Museo d’arte contemporanea all’aperto, Maglione - Torino; Museo d’arte di Mendrisio, Galleria civica d’arte Moderna. Suzzara - Mantova; Museo civico Villa dei Cedri, Bellinzona; Fondazione Banca dello Stato del Canton Ticino, Bellinzona, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo (Ferrara).
Principali esposizioni personali
1964 Galleria Pagani del Grattacielo, Legnano
1967 Galleria Tardy, Enschede (Olanda). Galleria La Bottegaccia, Giaveno. Galleria Scipione, Macerata
1968 Otto Richter Halle, Würzburg (Germania). Galerie Isy Brachot, Bruxelles (Belgio)
1969 Utrechste Kung, Utrech; e Museum de Vaart, Hilversum (Olanda)
1970 Galerie für Zeitgenossische Kunst, Hamburg (Germania). Galleria La Minima, Torino
1972 Galleria Ferro di cavallo, Roma. Galleria Arno, Firenza, Galleria Grifo, Bari
1973 Gallerie Degasches, Parigi. Galleria Angolare, Milano
1974 Kettle’s Yard, University of Cambridge. Galleria dello scudo, Verona. Galleria Portici, Bologna
1979 Madison Gallery, Toronto (Canada). Galleria Davico, Torino. Galleria Göethe, Bolzano
1980 Galleria 32, Milano
1982 Galleria Turelli, Montecatini. Galleria L’immagine, Mendrisio
1984 International Contemporary Art Fair, Londra. Arte Fiera, Bologna
1986 Galleria Davico, Torino
1988 Arte Fiera, Bologna
1989 Galleria Salamon, Torino
1992 Una chiusa rivisitata, Castel Grande, Bellinzona. Sala personale; La città inquietante, Promotrice, Assessorato alla cultura di Torino. Galleria Folco, Torino
1998 Galleria Davico, Torino
2002 Da Eros all’Eternità, Museo Parmeggiani, Renazzo (Ferrara)
2005 Predatore dell’immaginario, Regione Piemonte, sala Bolaffi, Torino
1967 Galleria Tardy, Enschede (Olanda). Galleria La Bottegaccia, Giaveno. Galleria Scipione, Macerata
1968 Otto Richter Halle, Würzburg (Germania). Galerie Isy Brachot, Bruxelles (Belgio)
1969 Utrechste Kung, Utrech; e Museum de Vaart, Hilversum (Olanda)
1970 Galerie für Zeitgenossische Kunst, Hamburg (Germania). Galleria La Minima, Torino
1972 Galleria Ferro di cavallo, Roma. Galleria Arno, Firenza, Galleria Grifo, Bari
1973 Gallerie Degasches, Parigi. Galleria Angolare, Milano
1974 Kettle’s Yard, University of Cambridge. Galleria dello scudo, Verona. Galleria Portici, Bologna
1979 Madison Gallery, Toronto (Canada). Galleria Davico, Torino. Galleria Göethe, Bolzano
1980 Galleria 32, Milano
1982 Galleria Turelli, Montecatini. Galleria L’immagine, Mendrisio
1984 International Contemporary Art Fair, Londra. Arte Fiera, Bologna
1986 Galleria Davico, Torino
1988 Arte Fiera, Bologna
1989 Galleria Salamon, Torino
1992 Una chiusa rivisitata, Castel Grande, Bellinzona. Sala personale; La città inquietante, Promotrice, Assessorato alla cultura di Torino. Galleria Folco, Torino
1998 Galleria Davico, Torino
2002 Da Eros all’Eternità, Museo Parmeggiani, Renazzo (Ferrara)
2005 Predatore dell’immaginario, Regione Piemonte, sala Bolaffi, Torino
Principali esposizioni collettive
1964 Premio Biella per l’incisione. Biennale dell'Incisione Italiana di Oggi, Padova
1965 Premio giovani incisori, Genova
1966 Soucasna surrealisticka Kolaz, Brno, Gottwaldove, Ceske Budejovice (Cecoslovacchia)
1967 Premio Ramazzotti, Milano. 58° Biennale Nazionale, Verona. Il ricupero del fantastico, Viadana
1969 Fantasmagie inernationale, Berlino
1970 VI Biennale internazionale di Mentone
1972 lbiza grafic (Spagna). B. Russel found, Londra. Adam und Eve, Berlino
1974 Biennale d’arte: Segovia, Madrid, Barcellona
1977 Padania fantastica. Bologna
1978 XI rassegna del sacro nell’arte contemporanea, Palermo
1981 Nuovo realismo italiano, Colunbus Center, Toronto
1982 Art Fair, Montreal
1985 Carta e Stampa, Museo di Mendrisio
1986 I Gilardi. Museo di Mendrisio
1986 Castello estense, Mesola
1989 Premio Suzzara, Mantova (I° premio)
1989/90 Il museo dei musei, Firenze, Tokio, Osaka
1992 La natura dei Gilardi, Galleria Folco, Torino
1995 Itinerario lombardo, Monza
1996 La Montagna, Galleria Marieschi, Monza
1997 Galleria Davico, Torino
1997 La montagna, Auronzo Cadore
1998 III° rassegna nazionale di Natura morta (I° premio), Museo Parmeggiani, Renazzo (FE)
1998 Neovedutismo, Galleria Marieschi, Monza. Nel segno dell’immagine, Museo dello splendore, Giulianova
2000 Vanitas Vanitatum et Omnia Vanias, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo. Veri veri, Gorizia
2001 Emozioni belliniane nella pittura contemporanea. La Madonna del prato. Museo Sandro Panneggiani, Renazzo
2002 La telecamera oscura, Spazi Museali di Palazzo Tornielli, Ameno
2003 Paesaggi di Bellinzona, Galleria Civica, Villa dei Cedri, Bellinzona (Svizzera). Videowanderkammer (La telecamera errante), Spazi Museali di Palazzo Tomielli, Ameno / Torino. Acqua. Tetralogia della natura, Galleria Marieschi, Milano. La «maniera moderna» del Rosso Fiorentino e la pittura d'oggi, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo
2004 Terra. Tetralogia della natura, Galleria Marieschi, Milano.
2009 Vite in mostra, Regione Piemonte, Sala Bolaffi
2010 La collezione, Museo d’arte di Mendrisio
1965 Premio giovani incisori, Genova
1966 Soucasna surrealisticka Kolaz, Brno, Gottwaldove, Ceske Budejovice (Cecoslovacchia)
1967 Premio Ramazzotti, Milano. 58° Biennale Nazionale, Verona. Il ricupero del fantastico, Viadana
1969 Fantasmagie inernationale, Berlino
1970 VI Biennale internazionale di Mentone
1972 lbiza grafic (Spagna). B. Russel found, Londra. Adam und Eve, Berlino
1974 Biennale d’arte: Segovia, Madrid, Barcellona
1977 Padania fantastica. Bologna
1978 XI rassegna del sacro nell’arte contemporanea, Palermo
1981 Nuovo realismo italiano, Colunbus Center, Toronto
1982 Art Fair, Montreal
1985 Carta e Stampa, Museo di Mendrisio
1986 I Gilardi. Museo di Mendrisio
1986 Castello estense, Mesola
1989 Premio Suzzara, Mantova (I° premio)
1989/90 Il museo dei musei, Firenze, Tokio, Osaka
1992 La natura dei Gilardi, Galleria Folco, Torino
1995 Itinerario lombardo, Monza
1996 La Montagna, Galleria Marieschi, Monza
1997 Galleria Davico, Torino
1997 La montagna, Auronzo Cadore
1998 III° rassegna nazionale di Natura morta (I° premio), Museo Parmeggiani, Renazzo (FE)
1998 Neovedutismo, Galleria Marieschi, Monza. Nel segno dell’immagine, Museo dello splendore, Giulianova
2000 Vanitas Vanitatum et Omnia Vanias, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo. Veri veri, Gorizia
2001 Emozioni belliniane nella pittura contemporanea. La Madonna del prato. Museo Sandro Panneggiani, Renazzo
2002 La telecamera oscura, Spazi Museali di Palazzo Tornielli, Ameno
2003 Paesaggi di Bellinzona, Galleria Civica, Villa dei Cedri, Bellinzona (Svizzera). Videowanderkammer (La telecamera errante), Spazi Museali di Palazzo Tomielli, Ameno / Torino. Acqua. Tetralogia della natura, Galleria Marieschi, Milano. La «maniera moderna» del Rosso Fiorentino e la pittura d'oggi, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo
2004 Terra. Tetralogia della natura, Galleria Marieschi, Milano.
2009 Vite in mostra, Regione Piemonte, Sala Bolaffi
2010 La collezione, Museo d’arte di Mendrisio
Bibliografia essenziale
L. MALLÈ, catalogo della mostra Artisti per il Barocco piemontese, Torino 1964
L. CARLUCCIO, in Peintre valdotains, Martigny 1964
L. CARLUCCIO - R. MARGONARI, Il recupero del fantastico, Viadana 1967
E. CRISPOLTI, a cura di, Prospettive. n. 3, Roma 1967
R. FORNI, a cura di, Padania Fantastica, Bologna 1977
B. MUNARI - M. MELOTTI, La città magica, Vercelli 1979
L. CARLUCCIO - C. MALBERTI, I paesaggi di Silvano Gilardi, Macla edizioni, Desio 1979
A. FREEDMANN, Silvano Gilardi, catalogo della personale alla Madison Gallery, Toronto 1979
P. PALOSCIA - G. BASSI - M. PENELOPE - P.C. SANTINI, Più vero del vero, Pistoia 1983
G. MARTINOLA - M. MELOTTI, I Gilardi, Mendrisio 1986
G. BARBERO, Piemonte anni ’80, Fabbri Editore 1985
V. SGARBI, a cura di, Paesaggio senza territorio, Milano 1986
V. SGARBI - C. MALBERTI, Natura morta contemporanea, Fabbri Editore 1986
M. CORGNATI - J. BECK - F. CAROLI - F. POLI, «M.A.C.A.M.», un paese di artisti, Fabbri Editore 1988
R. BARILLI - F. CAROLI - R. DE GRADA, a cura di, XIX premio Suzzara, Suzzara 1989
G. CONTESSI, a cura di, Il luogo dell'immagine. Scrittori, architetture, città, paesaggi, Pierluigi Lubrina Editore, Milano
P. DONATI, in “Archeologia Svizzera”, numero speciale, Basilea 1991, pp. 144-152
La Natura dei Gilardi, catalogo della mostra; testi di: L. CARLUCCIO - V. SGARBI - F. CAROLI - A. GILARDI, Torino 1992
P. DONATI, Una chiusa rivisitata, edizioni del Dipartimento del territorio, Ufficio monumenti storici dei Cantone Ticino, Bellinzona 1992
JANUS -V. SANFO - A. MISTRANGELO, a cura di, La città inquietante. Pittura fantastica a Torino, Assessorato alla cultura del comune di Torino, Fabbri editori 1992
F. CAROLI, Per Silvano Gilardi e per Fede Galizia, in: “Studi di storia dell'arte in onore di Mina Gregori”, Silvana Editore, 1994
L. CABUTTI, Silvano Gilardi Abacuc. Predatore dell’immaginario, catalogo della mostra monografica, Regione Piemonte, Giulio Bolaffi Editore, Torino 2005
E. DI STEFANO – G. INGARAO – D. LACAGNINA, Surrealismo e dintorni, Città di Castello 2010
F. FALOPPA, a cura di, Vite in Mostra. Venti artisti piemontesi si raccontano per 10 anni di Sala Bolaffi, Regione Piemonte, Giulio Bolaffi editore, Torino 2009
L. CARLUCCIO, in Peintre valdotains, Martigny 1964
L. CARLUCCIO - R. MARGONARI, Il recupero del fantastico, Viadana 1967
E. CRISPOLTI, a cura di, Prospettive. n. 3, Roma 1967
R. FORNI, a cura di, Padania Fantastica, Bologna 1977
B. MUNARI - M. MELOTTI, La città magica, Vercelli 1979
L. CARLUCCIO - C. MALBERTI, I paesaggi di Silvano Gilardi, Macla edizioni, Desio 1979
A. FREEDMANN, Silvano Gilardi, catalogo della personale alla Madison Gallery, Toronto 1979
P. PALOSCIA - G. BASSI - M. PENELOPE - P.C. SANTINI, Più vero del vero, Pistoia 1983
G. MARTINOLA - M. MELOTTI, I Gilardi, Mendrisio 1986
G. BARBERO, Piemonte anni ’80, Fabbri Editore 1985
V. SGARBI, a cura di, Paesaggio senza territorio, Milano 1986
V. SGARBI - C. MALBERTI, Natura morta contemporanea, Fabbri Editore 1986
M. CORGNATI - J. BECK - F. CAROLI - F. POLI, «M.A.C.A.M.», un paese di artisti, Fabbri Editore 1988
R. BARILLI - F. CAROLI - R. DE GRADA, a cura di, XIX premio Suzzara, Suzzara 1989
G. CONTESSI, a cura di, Il luogo dell'immagine. Scrittori, architetture, città, paesaggi, Pierluigi Lubrina Editore, Milano
P. DONATI, in “Archeologia Svizzera”, numero speciale, Basilea 1991, pp. 144-152
La Natura dei Gilardi, catalogo della mostra; testi di: L. CARLUCCIO - V. SGARBI - F. CAROLI - A. GILARDI, Torino 1992
P. DONATI, Una chiusa rivisitata, edizioni del Dipartimento del territorio, Ufficio monumenti storici dei Cantone Ticino, Bellinzona 1992
JANUS -V. SANFO - A. MISTRANGELO, a cura di, La città inquietante. Pittura fantastica a Torino, Assessorato alla cultura del comune di Torino, Fabbri editori 1992
F. CAROLI, Per Silvano Gilardi e per Fede Galizia, in: “Studi di storia dell'arte in onore di Mina Gregori”, Silvana Editore, 1994
L. CABUTTI, Silvano Gilardi Abacuc. Predatore dell’immaginario, catalogo della mostra monografica, Regione Piemonte, Giulio Bolaffi Editore, Torino 2005
E. DI STEFANO – G. INGARAO – D. LACAGNINA, Surrealismo e dintorni, Città di Castello 2010
F. FALOPPA, a cura di, Vite in Mostra. Venti artisti piemontesi si raccontano per 10 anni di Sala Bolaffi, Regione Piemonte, Giulio Bolaffi editore, Torino 2009
Testi per esposizioni
Davide G. Cravero, Abacuc, Galleria d'Arte Verrocchio, Pescara, 1963
Cordelier, Köecklien, La Bottegaccia, Giaveno, 1965
Lucio Cabutti, Abacuc, Alessandri, Camerini, Colombotto Rosso, Macciotta, Molinari, Galleria Civica d'Arte Moderna, Rivoli, 1965
Renzo Margonari, Prospettive 3, Galleria Due Mondi, Roma, 1967
Ferdinando Albertazzi, Abacuc, Galleria La Minima, Torino, 1970
Karis Pierry, Franco Torriani, Abacuc, Galleria Ferro di Cavallo, Roma, 1972
Abacuc, testo in Abacuc, Arno Galleria d'Arte, 1972
Abacuc, testo in Abacuc Il Tritone Galleria d'Arte, Biella, 1973
Armando Capri, Abacuc, Portici Gallerie d'Arte Bologna, 1974
Armando Capri, Abacuc, Galleria dello Scudo, Verona, 1974
Antonio Oberti, Abacuc, Il pittore dell'inconscio o del realismo fantastico, Galleria Magimawa, Torino, 1975
Ernesto Caballo, Surfanta ieri e i suoi pittori oggi, Galleria Davico, Torino, 1976
Claudio Malberti, La Montagna. Undici pittori contemporanei, Galleria Marieschi, Monza, 1996
Fabrizio Magani, Claudio Malberti, Neovedutismo, Galleria Marieschi, Monza, 1998
Autori Vari, Da Eros all’Eternità. I soggetti dei Trionfi di Francesco Petrarca nelle opere di Silvano Gilardi, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo (Fe), 2002
Autori Vari, Maglione un paese per gli artisti, 2002
Anastasia Gilardi, Il nuovo vince di solito la lotta travestendosi da vecchio, in Silvano Gilardi, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo (Fe), 2002
Maria Censi, Dalla poesia antica alla pittura contemporanea, in Silvano Gilardi, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo (Fe), 2002
Flavio Arensi, Tetralogia della natura. Acqua, Galleria Marieschi, Milano, 2003
Alberto Agazzani, Tetratogia della natura. Terra, Galleria Marieschi, Milano, 2004
Vittorio Ventura, Gilardi sale in cattedra, in “Italia Arte”, n. 4, Torino, 2005
Cordelier, Köecklien, La Bottegaccia, Giaveno, 1965
Lucio Cabutti, Abacuc, Alessandri, Camerini, Colombotto Rosso, Macciotta, Molinari, Galleria Civica d'Arte Moderna, Rivoli, 1965
Renzo Margonari, Prospettive 3, Galleria Due Mondi, Roma, 1967
Ferdinando Albertazzi, Abacuc, Galleria La Minima, Torino, 1970
Karis Pierry, Franco Torriani, Abacuc, Galleria Ferro di Cavallo, Roma, 1972
Abacuc, testo in Abacuc, Arno Galleria d'Arte, 1972
Abacuc, testo in Abacuc Il Tritone Galleria d'Arte, Biella, 1973
Armando Capri, Abacuc, Portici Gallerie d'Arte Bologna, 1974
Armando Capri, Abacuc, Galleria dello Scudo, Verona, 1974
Antonio Oberti, Abacuc, Il pittore dell'inconscio o del realismo fantastico, Galleria Magimawa, Torino, 1975
Ernesto Caballo, Surfanta ieri e i suoi pittori oggi, Galleria Davico, Torino, 1976
Claudio Malberti, La Montagna. Undici pittori contemporanei, Galleria Marieschi, Monza, 1996
Fabrizio Magani, Claudio Malberti, Neovedutismo, Galleria Marieschi, Monza, 1998
Autori Vari, Da Eros all’Eternità. I soggetti dei Trionfi di Francesco Petrarca nelle opere di Silvano Gilardi, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo (Fe), 2002
Autori Vari, Maglione un paese per gli artisti, 2002
Anastasia Gilardi, Il nuovo vince di solito la lotta travestendosi da vecchio, in Silvano Gilardi, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo (Fe), 2002
Maria Censi, Dalla poesia antica alla pittura contemporanea, in Silvano Gilardi, Museo Sandro Parmeggiani, Renazzo (Fe), 2002
Flavio Arensi, Tetralogia della natura. Acqua, Galleria Marieschi, Milano, 2003
Alberto Agazzani, Tetratogia della natura. Terra, Galleria Marieschi, Milano, 2004
Vittorio Ventura, Gilardi sale in cattedra, in “Italia Arte”, n. 4, Torino, 2005
Interventi critici
Alberto Cesare Ambesi, Marziano Bernardi, Carmine Benincasa, Renzo Biason, Leonardo Borghese, Liliana Bortolon, Luciano Budigna, Dino Buzzati, Domenico Cara, E. Cassa Salvi, Alfio Coccia. Marzio dell'Acqua, Angelo Dragone, Vittorio Grotti, Gioroio Kaiserlian. Kay Kritwiser, Emil Langui, Mario Lepore, Luciano Luisi, Claudio Malberti, Garibaldo Marussig, Elverio Maurizi, Marino Mercuri, Augusto Minucci, Angelo Mistrangelo, Franco Passoni, Pierre Restany, Renato Righetti, T.H. Seeger, Leonardo Sinisgalli, Franco Torriani, Marco Valsecchi.
PER SILVANO GILARDI E PER FEDE GALIZIA
Proprio io ho procurato l’incontro tra Silvano Gilardi e Fede Galizia; e sono dunque responsabile di uno dei cicli più complessi e alti che la pittura abbia affrontato negli ultimi anni. So benissimo che la motivazione dei due aggettivi testé messi sulla carta comporterebbe una mole di deduzioni sistematiche sul senso della pittura, tale da ridiscutere ab imis interi universi di pensiero dei nostri tempi. Ma ho già affrontato l’impresa in altra sede, e oggi sento con lancinante acutezza l’inutilità dei sillogismi ideologici che lasciano un buco aperto proprio lì, nel cuore del problema; un cuore del problema che si identifica con la presenza o l’assenza della magia; un buco nero che chiede anzi di essere riempito di magia a densità vertiginosa. Sento l’inutilità di sillogismi ideologici, perché mi pare che la risposta d ogni interrogativo sia sic et simpliciter sotto gli occhi di tutti, in una “cosa” che si chiama “qualità”; una cosa che, nell’istante in cui viene proposta e in cui viene percepita, obbedisce a forse imperscrutabili istanze primarie; una “cosa” che è dunque un valore in se stessa, un raggiungimento per così dire ontologico nel rapporto fra l’uomo e l’universo.
Credo nell’avanguardia. Non credo nell’avanguardia sociologica intesa come scandalo. Credo nell’avanguardia come punto avanzato di qualità nell’investigazione poetica dell’uomo sull’universo. Lo sanno bene gli storici dell’arte. Non c’è alto raggiungimento qualitativo che non sia anche raggiungimento precoce e “avanguardistico”; raggiungimento primario, tanto più moderno quanto più eterno. Tutto qui. Per me, non c’è bisogno di aggiungere altro.
Ora, posto che l’arte ha sempre “citato” (Dante da Virgilio, Caravaggio da Michelangelo, Velasquez da Tiziano e via dicendo), si tratta di capire qualitativamente, cioè primariamente, quando la citazione è creativa. L’arte dei nostri anni lo è stata raramente, per eccesso di programmaticità. La citazione di Gilardi, nelle opere in cui è scattato il cortocircuito direi “amorale” (etimologia affine ad “amore”) con l’universo poetico e simbolico di Fede Galizia, è estranea alle intenzioni e alla pratica di tutte le altre esperienze che potrebbero avere valore affine. E’ come se si fosse creato un triangolo fatato, in tutta una tradizione dell’arte contemporanea; i suoi vertici potrebbero essere identificati con una citazione di tipo anacronistico, con una citazione di tipo spaesante – surreale, e con una citazione fotografico – lenticolare. Ebbene, l’avventura di Gilardi guizza all’interno di questa figura geometrica tenendosi ben lontana dai vertici; si addensa in un centro che vive di scintille profonde e non di velleità aprioristiche; tanto si addensa che, per un tempo forse breve ma assoluto, convoglia le energie in un centro di gravità che si pone in interiore, profonda comunicazione con il sentimento dell’essere, cioè con la qualità, che è appartenuta al passato, e sembra per molti versi precluso al presente.
Un cortocircuito “amorale”, dicevo. C’era infatti infinito amore, infinita percezione e comprensione di ciò che accade all’interno della materia, e di ciò che accade nel pulviscolo regolare della luce, e di ciò che accade nell’impatto microscopicamente esplosivo fra le particelle della materia e quelle della luce, nel prolungato attimo luminoso di Fede. Ora, non è che Gilardi si sia posto in contatto medianico con la luce della pittrice secentesca. Non solo questo, almeno. Gilardi ha scovato una sofisticatissima, strumentatissima, umilissima, lunghezza d’onda che non è cambiata e non cambierà mai con quell’entità dopotutto, e brevissimamente, trascurabile che si chiama Tempo; la lunghezza d’onda che mette in sintonia con la natura in posa, con la natura che vive la sua vita silenziosa con la still life, appunto.
Vita gnoseologica e vita tecnica, in una simbiosi del tutto inscindibile. Il Seicento rappresentava gli oggetti con tali segregati prodigi di tecnica, perché li capiva e li interpretava in un certo modo; il modo che il nostro cuore moderno può dedurre intuitivamente solo dalle immagini che quel secolo ci ha lasciato, immagini che non potranno essere sostituite da nessuna parola e da nessun trattato filosofico. E’ nel cuore alchemico delle materie che Gilardi è penetrato di prima intenzione, con straordinarie – bisognerà pur dirlo – perizia e intelligenza tecnica; poi ha cominciato a risalire la corrente; una carezza plastica e un lumetto svelano il senso, la comprensione, impliciti in quell’atto espressivo; e così, svolgendo la matassa, il nostro artista si è trovato di fronte, credo con sua stessa sorpresa, l’entità meravigliosa e altrimenti incomprensibile che si affacciava agli occhi di un pittore del Seicento. Entità sostanziata di idee, di sensi, di consapevolezze scientifiche, di appetiti, di malinconie, di diligenza, di attesa e di incanti.
Entità antica e moderna, perché in minima parte soggetta alle bufere del tempo. Senonchè a questo punto, per Gilardi, cominciavano le vere difficoltà, difficoltà che non potevano essere travalicate di getto, solo con la massima generosità di poesia e di cuore. Se è vero, come ho supposto, che la natura morta rappresenta un “oggetto – stato d’animo” depositario privilegiato delle tempeste che agitano il cuore dell’uomo moderno, in quell’universo seicentesco Gilardi non poteva non insinuare l’uovo del sentire contemporaneo. Ed è questa ambiguità, questo equivoco che rende atemporali, ma anche divisi fra due tempi, questi dipinti, a renderli straordinari e inimitabili.
Nel ventre nero dello spazio che scolpisce pere e pesche come giganti assoluti e intangibili, noi vediamo il miracolo di una lanterna galileiana, secentesca, che una mano incomprensibile accende per breve tempo a illuminare le presenze di questo mondo. Ma in quel tunnel oscuro vediamo anche l’immensa cecità del tempo della pubblicità e dei computer, e l’immensa voglia che questo tempo ha di soffermarsi per un attimo, per un attimo appena più lungo della superficialità, sulle cose che circondano, e che si identificano con le nostre stesse vite.
“Vite”: ho detto bene. Poco prima che si spengano le luci e si squarci la cortina finale, io credo che tutti noi imploreremo un istante in più per guardare le cose nella loro meravigliosa irragionevolezza.
Quell’attimo, Gilardi se lo è concesso con molti anni di anticipo, e ci offre ora i barbagli di una esplorazione irripetibile. Abbagliante, trepida, scostante, intima e definitiva come tutti i messaggi che non ammettono confutazione.
Credo nell’avanguardia. Non credo nell’avanguardia sociologica intesa come scandalo. Credo nell’avanguardia come punto avanzato di qualità nell’investigazione poetica dell’uomo sull’universo. Lo sanno bene gli storici dell’arte. Non c’è alto raggiungimento qualitativo che non sia anche raggiungimento precoce e “avanguardistico”; raggiungimento primario, tanto più moderno quanto più eterno. Tutto qui. Per me, non c’è bisogno di aggiungere altro.
Ora, posto che l’arte ha sempre “citato” (Dante da Virgilio, Caravaggio da Michelangelo, Velasquez da Tiziano e via dicendo), si tratta di capire qualitativamente, cioè primariamente, quando la citazione è creativa. L’arte dei nostri anni lo è stata raramente, per eccesso di programmaticità. La citazione di Gilardi, nelle opere in cui è scattato il cortocircuito direi “amorale” (etimologia affine ad “amore”) con l’universo poetico e simbolico di Fede Galizia, è estranea alle intenzioni e alla pratica di tutte le altre esperienze che potrebbero avere valore affine. E’ come se si fosse creato un triangolo fatato, in tutta una tradizione dell’arte contemporanea; i suoi vertici potrebbero essere identificati con una citazione di tipo anacronistico, con una citazione di tipo spaesante – surreale, e con una citazione fotografico – lenticolare. Ebbene, l’avventura di Gilardi guizza all’interno di questa figura geometrica tenendosi ben lontana dai vertici; si addensa in un centro che vive di scintille profonde e non di velleità aprioristiche; tanto si addensa che, per un tempo forse breve ma assoluto, convoglia le energie in un centro di gravità che si pone in interiore, profonda comunicazione con il sentimento dell’essere, cioè con la qualità, che è appartenuta al passato, e sembra per molti versi precluso al presente.
Un cortocircuito “amorale”, dicevo. C’era infatti infinito amore, infinita percezione e comprensione di ciò che accade all’interno della materia, e di ciò che accade nel pulviscolo regolare della luce, e di ciò che accade nell’impatto microscopicamente esplosivo fra le particelle della materia e quelle della luce, nel prolungato attimo luminoso di Fede. Ora, non è che Gilardi si sia posto in contatto medianico con la luce della pittrice secentesca. Non solo questo, almeno. Gilardi ha scovato una sofisticatissima, strumentatissima, umilissima, lunghezza d’onda che non è cambiata e non cambierà mai con quell’entità dopotutto, e brevissimamente, trascurabile che si chiama Tempo; la lunghezza d’onda che mette in sintonia con la natura in posa, con la natura che vive la sua vita silenziosa con la still life, appunto.
Vita gnoseologica e vita tecnica, in una simbiosi del tutto inscindibile. Il Seicento rappresentava gli oggetti con tali segregati prodigi di tecnica, perché li capiva e li interpretava in un certo modo; il modo che il nostro cuore moderno può dedurre intuitivamente solo dalle immagini che quel secolo ci ha lasciato, immagini che non potranno essere sostituite da nessuna parola e da nessun trattato filosofico. E’ nel cuore alchemico delle materie che Gilardi è penetrato di prima intenzione, con straordinarie – bisognerà pur dirlo – perizia e intelligenza tecnica; poi ha cominciato a risalire la corrente; una carezza plastica e un lumetto svelano il senso, la comprensione, impliciti in quell’atto espressivo; e così, svolgendo la matassa, il nostro artista si è trovato di fronte, credo con sua stessa sorpresa, l’entità meravigliosa e altrimenti incomprensibile che si affacciava agli occhi di un pittore del Seicento. Entità sostanziata di idee, di sensi, di consapevolezze scientifiche, di appetiti, di malinconie, di diligenza, di attesa e di incanti.
Entità antica e moderna, perché in minima parte soggetta alle bufere del tempo. Senonchè a questo punto, per Gilardi, cominciavano le vere difficoltà, difficoltà che non potevano essere travalicate di getto, solo con la massima generosità di poesia e di cuore. Se è vero, come ho supposto, che la natura morta rappresenta un “oggetto – stato d’animo” depositario privilegiato delle tempeste che agitano il cuore dell’uomo moderno, in quell’universo seicentesco Gilardi non poteva non insinuare l’uovo del sentire contemporaneo. Ed è questa ambiguità, questo equivoco che rende atemporali, ma anche divisi fra due tempi, questi dipinti, a renderli straordinari e inimitabili.
Nel ventre nero dello spazio che scolpisce pere e pesche come giganti assoluti e intangibili, noi vediamo il miracolo di una lanterna galileiana, secentesca, che una mano incomprensibile accende per breve tempo a illuminare le presenze di questo mondo. Ma in quel tunnel oscuro vediamo anche l’immensa cecità del tempo della pubblicità e dei computer, e l’immensa voglia che questo tempo ha di soffermarsi per un attimo, per un attimo appena più lungo della superficialità, sulle cose che circondano, e che si identificano con le nostre stesse vite.
“Vite”: ho detto bene. Poco prima che si spengano le luci e si squarci la cortina finale, io credo che tutti noi imploreremo un istante in più per guardare le cose nella loro meravigliosa irragionevolezza.
Quell’attimo, Gilardi se lo è concesso con molti anni di anticipo, e ci offre ora i barbagli di una esplorazione irripetibile. Abbagliante, trepida, scostante, intima e definitiva come tutti i messaggi che non ammettono confutazione.
Flavio Caroli, in Studi di storia d’arte in onore di Mina Gregori,
Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 1994
IL NOMINALISMO DI SILVANO GILARDI
Due questioni fondamentali pone la pittura di Silvano Gilardi: la prima è quella del realismo, la seconda è quella dei generi. L'apparenza infatti denuncia cose riconoscibili, montagne, cieli, alberi, o frutta e fiori diversi: mele, pere, agrumi, garofani ed altre varietà botaniche, ma la nostra mente non registra con il procedimento della memoria attiva, immagini che conosce, e nemmeno forme consuete. Sappiamo bensì di vedere monti, neve o acque, ma sappiamo anche di essere in nessun luogo e in nessun tempo, che quei monti, quella neve e quelle acque non hanno consistenza reale, non rappresentano un dato di natura. Gilardi dipinge con minuziosa fedeltà un'idea universale di natura rappresentando non ciò che vede ma ciò che sente, il suo sogno delle cose, il suo mito sotto specie di paesaggio o di natura morta. Diverso è dipingere una montagna, diverso è dipingere l'idea della montagna. In un certo senso Gilardi ripropone l'antica disputa medioevale sugli universali. La questione è quella indicata da Porfirio nella sua introduzione alle Categorie di Aristotele: "Intorno ai generi e alle specie, non dirà qui se essi sussistano oppure siano i posti soltanto nell'intelletto; né, nel caso che sussistano, se siano corporei o incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed esprimenti i loro caratteri comuni." La soluzione prescelta da Gilardi non è quella "realista" ma quella "nominalista”, secondo la quale l'universale è un Segno delle cose stesse e sta in luogo di esse. Quanto a dire, sul piano dell'estetica figurativa, che per Gilardi la pittura sta al posto della realtà, la sostituisce.
Ecco perché il reale non ha nulla di realistico, è una invenzione che parte da un pretesto, da una nozione convenzionale della natura. Con lo stesso spirito Gilardi affronta ora la natura morta. Niente di più lontano della sua idea di mela dalla mela reale. Come prima il suo soggetto principale era il paesaggio, ora lo è, essenzialmente, metodicamente, la natura morta. Si tratta, in questo caso, di un doppio nominalismo, o di un nominalismo "orientato" sui generi. Dopo aver sperimentato il genere paesaggio con le sue infinite possibilità di invenzione, Gilardi affronta il genere natura morta con la stessa insistenza, ossessione, tenacia. Ma erano veramente paesaggi, e sono veramente, ora, nature morte? La superficie che vediamo è porcellanosa, specchiante, traslucida. Benché l'esecuzione sia meticolosa, non è possibile nessun equivoco con la realtà esterna, nessun rimando alla fotografia, nessuna ambiguità da trompe-l’oeil.
Nel suo nominalismo Gilardi si confronta da un lato con le composizioni di Arcimboldo, dall'altro con le nature morte evanescenti di Octavianus Monfort e di Giovanna Garzoni. A cosa punta? Non certo a una visione simbolica, come potrebbe suggerire una facile lettura, bensì a una fuga dalle apparenze del reale, per cogliere un paradiso delle cose, una dimensione ultranaturale. Ed ecco allora che anche il genere natura morta non è più tale.
Aveva ben colto questa condizione Luigi Carluccio, riconoscendo nella pittura di Gilardi "un sottilissimo strato d'aria, ma che agisce poi sullo spettatore in forma di un leggero strato psicologico e quindi sta al di sopra del vero che gli corrisponde: il vero che sta dall'altra parte della cosa veduta, che sfugge all'occhio, alla quantità fisica dell'occhio; il vero che si può soltanto immaginare, che può essere concretamente affermato soltanto con un'operazione di strappo, una leggera spoglia strappata alla vita stessa, una pelle, una pellicola sottilissima che possiamo percepire soltanto per quel contratto faustiano che esiste fra l'uomo, la sua esistenza e il mondo". Ma non è ancora sufficiente. Resta da spiegare perché nella sua mitologia botanica, Gilardi non definisca mai un ambiente chiuso, un interno, il luogo ideale e deputato della natura morta. E’ questa la seconda questione che egli affronta: quella, che si è detta all'inizio, dei generi. Ricordiamo, benché con altro spirito, l'idea di Filippo de Pisis, di dare aria, di porre "en plein air" la natura morta, togliendola all'angustia degli ambienti chiusi. Con uno spirito manieristico, con un gusto della deformazione che sfiora, senza mai toccarla, l'anamorfosi, Silvano Gilardi immagina la natura morta nella natura, fonde le sue visioni di lontananze paradisiache, di azzurri infiniti con il repertorio di fiori e di frutta che abbiamo sempre trovato sui tavoli e nelle ceste in una luce d'interni con forti chiaroscuri, secondo la lezione caravaggesca. Con grande naturalezza come deposti nel giorno della creazione, stanno sulla riva di un fiume, contro ghiacciai, su morbidi tappeti erbosi, le pere, le mele, i fichi, gli iris, le peonie; convivono oltre le stagioni. Così il genere natura morta viene rimesso in discussione, perde la sua connotazione di genere, per diventare una visione globale, un'idea universale. E quanto più la compenetrazione e la fusione dell'ambiente naturale con la frutta e i fiori è esplicita, tanto più Gilardi raggiunge il suo obiettivo.
Allora anche la qualità, l'invenzione, e l'intrigo del concetto, filosoficamente adombrato, toccano i risultati più alti. Il supremo artificio determina una seconda natura nella quale veniamo coinvolti attraverso una impercettibile ipnosi: non sappiamo più se credere a ciò che sappiamo della natura o credere a ciò che adesso vediamo nella trasfigurata visione di Gilardi. In questi momenti anche la luce si fa diversa, ultraterrena, ma non per questo onirica. Questa luce unisce, amalgama, compenetra la natura vivente e la natura morta, sfiora l'epidermide delle cose, cristallizza il fiume e rende fluida la pelle delle pesche, circola ovunque, si posa come un velo. In certi momenti la luce sembra provenire non dall'esterno ma dall'interno, dal corpo del monte, come per un'accensione sulfurea, un'incandescenza vulcanica. Altrove si fa serotina, vellutata, determinando quella che lo stesso Gilardi chiama "l'ombra benigna degli alberi". Come capite bene non si tratta degli alberi, ma della loro immagine trasfigurata, in metamorfosi con le rocce, con un effetto di muschio. Ma anche la luce non ha, in Gilardi, nulla di naturalistico, nulla di fenomenico, ed è invece un'idea della luce, un'abbagliante, incandescente lingotto che sta come una spada nella roccia, come la lama dell'Arcangelo nel Paradiso Terrestre. Anch'essa diventa un corpo, si fa solida, convive con le rocce, la terra. l'acqua e i frutti: è un corpo astrale, forse l'aspirazione al divino come, in forme più pianamente naturalistiche, lo erano i ghiacciai nei paesaggi. In questa nuova serie Gilardi ha voluto sfiorare il mistero della creazione e la presenza del divino nella natura, un pensiero costante della sua ricerca, quello stesso che muove tutta la sua programmatica fuga dal reale sotto l'apparenza di riprodurlo. Così la sua Pittura può essere definita metafisica in senso religioso, e forse meglio mistica, attraverso e contro i generi. Scoperto è il suo riferimento piuttosto che a Friedrich, come proponeva Carluccio, a Böcklin o a Diefenbach, per una analoga, misteriosa evocazione degli spiriti della natura. Perché Gilardi crede fermamente che ogni cosa il pittore dipinga, dipinge Dio.
Ecco perché il reale non ha nulla di realistico, è una invenzione che parte da un pretesto, da una nozione convenzionale della natura. Con lo stesso spirito Gilardi affronta ora la natura morta. Niente di più lontano della sua idea di mela dalla mela reale. Come prima il suo soggetto principale era il paesaggio, ora lo è, essenzialmente, metodicamente, la natura morta. Si tratta, in questo caso, di un doppio nominalismo, o di un nominalismo "orientato" sui generi. Dopo aver sperimentato il genere paesaggio con le sue infinite possibilità di invenzione, Gilardi affronta il genere natura morta con la stessa insistenza, ossessione, tenacia. Ma erano veramente paesaggi, e sono veramente, ora, nature morte? La superficie che vediamo è porcellanosa, specchiante, traslucida. Benché l'esecuzione sia meticolosa, non è possibile nessun equivoco con la realtà esterna, nessun rimando alla fotografia, nessuna ambiguità da trompe-l’oeil.
Nel suo nominalismo Gilardi si confronta da un lato con le composizioni di Arcimboldo, dall'altro con le nature morte evanescenti di Octavianus Monfort e di Giovanna Garzoni. A cosa punta? Non certo a una visione simbolica, come potrebbe suggerire una facile lettura, bensì a una fuga dalle apparenze del reale, per cogliere un paradiso delle cose, una dimensione ultranaturale. Ed ecco allora che anche il genere natura morta non è più tale.
Aveva ben colto questa condizione Luigi Carluccio, riconoscendo nella pittura di Gilardi "un sottilissimo strato d'aria, ma che agisce poi sullo spettatore in forma di un leggero strato psicologico e quindi sta al di sopra del vero che gli corrisponde: il vero che sta dall'altra parte della cosa veduta, che sfugge all'occhio, alla quantità fisica dell'occhio; il vero che si può soltanto immaginare, che può essere concretamente affermato soltanto con un'operazione di strappo, una leggera spoglia strappata alla vita stessa, una pelle, una pellicola sottilissima che possiamo percepire soltanto per quel contratto faustiano che esiste fra l'uomo, la sua esistenza e il mondo". Ma non è ancora sufficiente. Resta da spiegare perché nella sua mitologia botanica, Gilardi non definisca mai un ambiente chiuso, un interno, il luogo ideale e deputato della natura morta. E’ questa la seconda questione che egli affronta: quella, che si è detta all'inizio, dei generi. Ricordiamo, benché con altro spirito, l'idea di Filippo de Pisis, di dare aria, di porre "en plein air" la natura morta, togliendola all'angustia degli ambienti chiusi. Con uno spirito manieristico, con un gusto della deformazione che sfiora, senza mai toccarla, l'anamorfosi, Silvano Gilardi immagina la natura morta nella natura, fonde le sue visioni di lontananze paradisiache, di azzurri infiniti con il repertorio di fiori e di frutta che abbiamo sempre trovato sui tavoli e nelle ceste in una luce d'interni con forti chiaroscuri, secondo la lezione caravaggesca. Con grande naturalezza come deposti nel giorno della creazione, stanno sulla riva di un fiume, contro ghiacciai, su morbidi tappeti erbosi, le pere, le mele, i fichi, gli iris, le peonie; convivono oltre le stagioni. Così il genere natura morta viene rimesso in discussione, perde la sua connotazione di genere, per diventare una visione globale, un'idea universale. E quanto più la compenetrazione e la fusione dell'ambiente naturale con la frutta e i fiori è esplicita, tanto più Gilardi raggiunge il suo obiettivo.
Allora anche la qualità, l'invenzione, e l'intrigo del concetto, filosoficamente adombrato, toccano i risultati più alti. Il supremo artificio determina una seconda natura nella quale veniamo coinvolti attraverso una impercettibile ipnosi: non sappiamo più se credere a ciò che sappiamo della natura o credere a ciò che adesso vediamo nella trasfigurata visione di Gilardi. In questi momenti anche la luce si fa diversa, ultraterrena, ma non per questo onirica. Questa luce unisce, amalgama, compenetra la natura vivente e la natura morta, sfiora l'epidermide delle cose, cristallizza il fiume e rende fluida la pelle delle pesche, circola ovunque, si posa come un velo. In certi momenti la luce sembra provenire non dall'esterno ma dall'interno, dal corpo del monte, come per un'accensione sulfurea, un'incandescenza vulcanica. Altrove si fa serotina, vellutata, determinando quella che lo stesso Gilardi chiama "l'ombra benigna degli alberi". Come capite bene non si tratta degli alberi, ma della loro immagine trasfigurata, in metamorfosi con le rocce, con un effetto di muschio. Ma anche la luce non ha, in Gilardi, nulla di naturalistico, nulla di fenomenico, ed è invece un'idea della luce, un'abbagliante, incandescente lingotto che sta come una spada nella roccia, come la lama dell'Arcangelo nel Paradiso Terrestre. Anch'essa diventa un corpo, si fa solida, convive con le rocce, la terra. l'acqua e i frutti: è un corpo astrale, forse l'aspirazione al divino come, in forme più pianamente naturalistiche, lo erano i ghiacciai nei paesaggi. In questa nuova serie Gilardi ha voluto sfiorare il mistero della creazione e la presenza del divino nella natura, un pensiero costante della sua ricerca, quello stesso che muove tutta la sua programmatica fuga dal reale sotto l'apparenza di riprodurlo. Così la sua Pittura può essere definita metafisica in senso religioso, e forse meglio mistica, attraverso e contro i generi. Scoperto è il suo riferimento piuttosto che a Friedrich, come proponeva Carluccio, a Böcklin o a Diefenbach, per una analoga, misteriosa evocazione degli spiriti della natura. Perché Gilardi crede fermamente che ogni cosa il pittore dipinga, dipinge Dio.
Vittorio Sgarbi, catalogo della mostra,
Galleria Davico, Torino 1986